ARTICOLO A CURA DI
Giulio Rinaldi ceroni e Massimo Rinaldi Ceroni, Direttore Consorzio Marchio storico dei Lambruschi Modenesi
CLICCA QUI PER SCARICARE L'ARTICOLO COMPLETO
Continua e leggi tutto l'articolo
Esemplare agroecosistema dove convivono l’agricoltura industriale ed il rispetto per la biodiversità e per le tradizioni. I contadini hanno resistito alla tentazione di scendere a valle durante il boom economico e sono rimasti a presidiare un territorio difficile, per i fenomeni naturali che caratterizzano questa vallata.
Questo loro
rispetto per la natura ci regala un paesaggio da non perdere e la “Sagra dei
frutti dimenticati”.
Si trova in terra di Romagna ed è l’ultimo
comune della provincia di Ravenna prima della Toscana, a sud della via Emilia
risalendo per 20
chilometri il corso del torrente Senio fino ai confini
dell’Appennino Tosco-Romagnolo.
Seguendo questo itinerario si passa dai
terreni fertili tipici della pianura Padana caratterizzati da un’agricoltura
molto specializzata dove primeggiano importanti colture arboree, quali
actinidia e pesco, a quelli più declivi e meno fertili della collina e in particolare
dei calanchi, formazioni argillose del quaternario ricche dell’elemento
potassio, dove la vite diventa la coltura di riferimento con il vitigno “Sangiovese
di Romagna”(foto sopra), accompagnata da quella dell’albicocco nei versanti più comodi e
protetti dalle gelide correnti d’aria di fine inverno. Raggiunta la vena del
gesso, importante formazione geologica risalente al miocene, qualcosa come 5
milioni di anni fa, attraverso una porta naturale scavata dal corso d’acqua
nella roccia gessosa, si entra in una meravigliosa e verde vallata tipicamente
collinare che sullo sfondo lascia intravedere la catena montuosa dell’Appennino (foto sotto).
In tutto il percorso non sfugge all’occhio la
bellezza del paesaggio creato dall’equilibrio tra l’attività di sfruttamento
dell’uomo con i terreni coltivati a vigneto ordinati in forme di allevamento a
cordone speronato per i vitigni rossi, a capovolto e casarsa per i bianchi, con
disposizione dei filari a seconda della pendenza a ritocchino o a cavalcapoggio
e l’ambiente naturale circostante costituito inizialmente da boschi di roverella frammista a robinia per poi
alternarsi, salendo in quota, con carpino e castagno.
Si ha la netta sensazione di calarsi
all’interno di un esempio reale di quell’ agricoltura sostenibile che si va
evocando in equilibrio con l’ambiente e in difesa della biodiversità. Accanto a
un modello di agricoltura moderno e meccanizzato ne sopravvive uno che conserva
le tradizioni e la preziosa cultura contadina.
I seminativi sono chiazzati dalle voluminose
e surreali rotoballe create dalle macchine per la fienagione ma sopravvive
ancora il vecchio fienile, fatto con tante ore di forcale diretto da mani
esperte e capaci, come usava qualche secolo fa e come ormai ne sono testimonianza
solo le foto d’epoca o la descrizione nei trattati di storia dell’agricoltura.
Questa sensazione di essere in una terra
davvero speciale dove è possibile provare l’emozione di conoscere e confrontare
due modi di vivere, presente e passato, con tutte le loro sfumature e contorni,
si apprezza e respira ancora meglio incontrando e visitando le aziende agrarie.
Colpisce la spontanea ospitalità di questi
agricoltori che hanno resistito alla tentazione di scendere a valle durante il
grande esodo negli anni del boom economico verso il guadagno facile delle
fabbriche e sono invece rimasti come autentiche sentinelle a presidio e
custodia di un territorio tutt’altro che facile.
Colpisce la loro curiosità e umiltà stimolata
forse dalla convivenza con i fenomeni naturali, quali le copiose nevicate così
come le sciroccate o i violenti e improvvisi temporali dovuti alla vicinanza
dell’Appennino.
Affascina il loro senso di rispetto per la
natura, per il terreno che viene lavorato solo in precisi momenti oppure
destinato al pascolo del bestiame, bovino in particolare, con mandrie di
bianche romagnole(foto sopra).
Stupisce il rispetto per tutto quello che è
il passato tramandato in modo verbale da padre in figlio, da una generazione
all’altra così come lo diventano i frutti cosiddetti “dimenticati”che in questo
piccolo paese sono diventati un punto di attrazione e interesse nella festa che
viene a loro dedicata nel secondo e terzo fine settimana del mese di ottobre di
ogni anno.
Queste specie e varietà a casa di molti
agricoltori sono state affettuosamente messe al riparo dalla modernità e da
quanto il miglioramento genetico proponeva e conservate quasi come un prezioso ricordo
di famiglia legato al nonno o al capostipite del casato, mettendo con ciò in
sicurezza un patrimonio genetico che diversamente sarebbe andato perduto.
Così del pero si possono gustare varietà come
“Il Martin Sec”, “La Pera
Volpina ”(foto sopra), “La
Pera Mora ”, oltre a una moltitudine di ecotipi sparsi nelle
radure di difficile classificazione. Del melo poi ancora più ardua e fare una
catalogazione delle varietà o presunte tali che ogni agricoltore sfoggia con un
suo nome di fantasia. C’è poi il lazzeruolo, quello dai frutticini rossi e
quello dai frutticini bianchi, doverosamente
innestati sul biancospino che cresce
spontaneo. Vicino alla casa colonica non mancano alcune colonie di fichi,
cosiddetti “dalla goccia d’oro”. Il sambuco(foto a sinistra), il corniolo, le more, il sorbo,
sono altre specie da frutto che diventano oggetto di cura soprattutto nella
parte più alta del territorio dove crescono spontanee in un ambiente
incontaminato e dove convivono nelle radure create tra i boschi misti di
querce, frassino e carpino bianco, producendo frutti che vengono raccolti e trasformati
in deliziose marmellate e confetture.
Dove il bestiame pascola si creano delle
spontanee colonie di Rosa canina(foto a destra) che dall’ autunno arrossiscono per la copiosa
presenza di cinorrodi, i cosiddetti “Pizzinculo”, piccoli frutti che sono, ma
soprattutto erano, un importante fonte di vitamina C per l’uomo prima
dell’avvento della blasonata actinidia.
Nessun commento:
Posta un commento